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Il titolo evidenzia, nei due termini contrari, il senso del lavoro inteso
anche come manualità, fatica, talora delusione per i risultati raggiunti
non corrispondenti a ciò che l’artista si era prefissata. Inoltre vuole
connotare la sua continua tensione, quella sfida al banale, al trito, al già
visto, la “quête” ininterrotta verso un ideale superamento della più ovvia
realtà.
La pittrice ha improntato la sua lunga ricerca artistica all’insegna della
creatività e della fantasia, creando favolosi microcosmi fra reale e sogno.
Ha infranto gli schemi della pittura tradizionale, la rassicurante visione
mimetica della realtà, per esplorare i mondi dell’inconscio, del sogno,
dell’ombra e delle radici...
In un catalogo del 1977 per una mostra al “Pèilo dij Pòrti Sovran” scrivevo:
«L’arte di Gabriella Malfatti è di matrice psichica tutta tesa
all’introspezione, trasposizione di contenuti interiori attraverso un’azione
segnica di intensa drammaticità.»
Mi affascinava quel periodo artistico proprio per la potenza evocativa
delle immagini, l’originalità degli accostamenti, l’affondare in epoche
remote (come le citazioni egizie in certe opere).
Negli anni Novanta l’arte della Malfatti s’incunea nel solco di un figurativo
più tradizionale, anche se permangono vaste incursioni nei territori della
fiaba, della fantasia, del potere evocativo della letteratura. Una suite
emblematica è quella dedicata ai luoghi pavesiani. Qui la pittrice,
attraverso un finissimo disegno evidenziato da un sapiente gioco
chiaroscurale, fa riemerge gli oggetti delle narrazioni pavesiane con
un’aura di poesia e di incanto. Ne La casa di Nuto, per esempio, delinea in
orizzontale il tavolo da lavoro del falegname dove una serie di oggetti
rifulgono accarezzati da un fascio di luce che penetra da una finestra
spalancata.
Ne La Mora, una finissima trama segnica ci dà un’immagine
indimenticabile della cascina del capolavoro di Pavese, La luna e i falò.
Legname, bigonce, attrezzi sono appoggiati al muro vicino ad un grande
portone dove l’ombra affonda, come un occhio cieco. Sul balcone con le
rugginose ringhiere pare che da un momento all’altro appaia una figura
del romanzo, così per magia.
Poi la Malfatti, soprattutto nel nuovo millennio, sviluppa per cerchi
concentrici una serie di immagini di luoghi dell’anima. Esemplare è, a
questo proposito, Rivoli come non mai, una serie di chine acquerellate
(raccolte in cartella), un cantico di amore verso la città, dove l’architettura
diventa protagonista assoluto. Strade, piazze, vicoli, chiese, palazzi, si
fanno quinte magiche dove la storia intesse dialoghi con il presente.
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