Page 44 - 2015_Antologica
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Il  titolo  evidenzia,  nei  due  termini  contrari,  il  senso  del  lavoro  inteso
               anche  come  manualità,  fatica,  talora  delusione   per  i  risultati  raggiunti
               non  corrispondenti  a  ciò  che  l’artista  si  era  prefissata.  Inoltre  vuole
               connotare la sua continua tensione, quella sfida al banale, al trito, al già
               visto, la “quête” ininterrotta verso un ideale superamento della più ovvia
               realtà.

               La  pittrice  ha  improntato  la  sua  lunga  ricerca  artistica  all’insegna  della
               creatività e della fantasia, creando favolosi microcosmi fra reale e sogno.
               Ha  infranto  gli  schemi  della  pittura  tradizionale,  la  rassicurante  visione
               mimetica  della  realtà,  per  esplorare  i  mondi  dell’inconscio,  del  sogno,
               dell’ombra e delle radici...
               In un catalogo del 1977 per una mostra al “Pèilo dij Pòrti Sovran” scrivevo:
               «L’arte  di  Gabriella  Malfatti  è  di  matrice  psichica  tutta  tesa
               all’introspezione, trasposizione di contenuti interiori attraverso un’azione
               segnica di intensa drammaticità.»
               Mi  affascinava  quel  periodo  artistico  proprio  per  la  potenza  evocativa
               delle  immagini,  l’originalità  degli  accostamenti,  l’affondare  in  epoche
               remote (come le citazioni egizie in certe opere).

               Negli anni Novanta l’arte della Malfatti s’incunea nel solco di un figurativo
               più tradizionale, anche se permangono vaste incursioni nei territori della
               fiaba,  della  fantasia,  del  potere  evocativo  della  letteratura.  Una  suite
               emblematica  è  quella  dedicata  ai  luoghi  pavesiani.  Qui  la  pittrice,
               attraverso  un  finissimo  disegno  evidenziato  da  un  sapiente  gioco
               chiaroscurale,  fa  riemerge  gli  oggetti  delle  narrazioni  pavesiane  con
               un’aura di poesia e di incanto. Ne La casa di Nuto, per esempio, delinea in
               orizzontale  il  tavolo  da  lavoro  del  falegname  dove  una  serie  di  oggetti
               rifulgono  accarezzati  da  un  fascio  di  luce  che  penetra  da  una  finestra
               spalancata.

               Ne  La  Mora,  una  finissima  trama  segnica  ci  dà  un’immagine
               indimenticabile della cascina del capolavoro di  Pavese, La luna e i falò.
               Legname, bigonce, attrezzi sono appoggiati al muro vicino ad un grande
               portone dove l’ombra affonda, come un occhio cieco. Sul balcone con le
               rugginose ringhiere pare che da un momento all’altro appaia una figura
               del romanzo, così per magia.

               Poi  la  Malfatti,  soprattutto  nel  nuovo  millennio,  sviluppa  per  cerchi
               concentrici  una  serie  di  immagini  di  luoghi  dell’anima.  Esemplare  è,  a
               questo  proposito,  Rivoli  come  non  mai,  una  serie  di  chine  acquerellate
               (raccolte in cartella), un cantico di amore verso la città, dove l’architettura
               diventa  protagonista  assoluto.  Strade,  piazze,  vicoli,  chiese,  palazzi,  si
               fanno quinte magiche dove la storia intesse dialoghi con il presente.


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